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Se la gioia può costituire un problema...

Tra le emozioni di base è certamente la più ambita, ma la gioia può anche risultare problematica?

Si presuppone spesso che la sofferenza sia legata alle emozioni che consideriamo spiacevoli, come la tristezza o la vergogna, e siamo portati ad escludere che si possa avere qualche difficoltà con la gioia. Di certo non abbiamo la tendenza a chiedere aiuto nei momenti in cui ci sentiamo felici, a patto però di viversi serenamente la felicità.

Se persino ridere ha le sue magagne...

Spesso tendiamo a frapporre tra noi e la gioia una serie di ostacoli che generalmente consideriamo esterni a noi: lavoro, separazioni, lutti, senso di esclusione sociale, bassa autostima... E se in questi casi, piuttosto che abbandonarsi ad una visione dolceamara che ci vede vittime degli eventi, provassimo ad ingaggiarci in un dialogo partecipe con noi stessi? Potremmo chiederci: in che modo sto contribuendo al mio dolore? Che ruolo sto avendo nell'alimentarlo? Riconoscere di avere una parte nel dramma vissuto ci permette anche di prenderne le distanze a sufficienza per modificare il copione, cambiare modo di interpretare il personaggio e quindi anche la rappresentazione.

La gioia é un'emozione che in diverse occasioni può essere vissuta come problematica, quando ad esempio non ci sentiamo meritevoli di provarla, se arriva in un momento di dolore per altri a noi cari, se siamo impegnati a valutarla per capire se si adegua alle aspettative (quella provata nelle occasioni generalmente connotate come 'giorni più belli della vita') oppure quando siamo certi che a quella nota piacevole dell'esperienza seguirà un tracollo, al punto da sostituire la gioia con l'allarme per l'imminente disastro. Anche esprimerla può risultare difficoltoso, pensiamo ad esempio agli sforzi per trattenerla di chi vince ad un talent o un game show avendo al fianco il concorrente uscente. L'uso dei social pone la questione di quanta gioia si possa manifestare senza suscitare un invidioso disprezzo, diverse celebrità sono state prese di mira per essersi concesse troppo leggermente alla gioia durante la pandemia.

Quando il successo è una colpa.

Chi riesce a realizzare un disegno di vita di successo, ma proviene da una storia famigliare estremamente drammatica, può andare incontro a quello che si chiama "senso di colpa del sopravvissuto". Chi sopravvive ad una sciagura che ha decretato la morte di altri che si trovavano con lui, rischia di scivolare in un vortice di dolore alienante legato al senso di vivere immeritatamente, commettendo un'ingiustizia già soltanto vivendo. La gioia, naturalmente, non farebbe che nutrire questa condanna. É una condizione abbastanza diffusa tra i profughi che riescono a mettersi in salvo (associandosi spesso al disturbo post-traumatico da stress), tra le seconde generazioni che riescono a realizzare la vita tanto agognata dai genitori, ai quali invece l'ingresso in quel mondo è stato interdetto. Persino salvarsi dai campi di concentramento ha comportato per molti l'inizio di una nuova tragedia nella quale il nemico è diventato il proprio Io che respira, al punto da togliersi la vita.

Gioiosi dilemmi

Ma tornando invece ad una quotidianità decisamente più lontana da esperienze tanto intense, possiamo riconoscere quanto sia difficile concedersi di assaporare la gioia anche quando ad esempio si esce per una cena lasciando a casa i figli con qualcuno, concedersi un pò di sana vita da studente fuori-sede mentre i genitori non fanno che ripetere quanto soffrano per la mancanza, oppure quando in una giornata una sorpresa potrebbe cambiare i nostri programmi e ci ritroviamo paralizzati nel tristemente famoso dilemma 'dovere o piacere' (non è forse un dovere prendersi cura del proprio piacere?).

Quando fa capolino il giudizio, proprio la gioia può essere una delle emozioni capaci di metterci più in crisi: me la merito? É appropriata al momento? Se la esprimo manco di rispetto agli altri? Ne sto provando abbastanza? Arrivano i nuvoloni, il cielo si oscura e di quell'emozione che timidamente aveva fatto capolino possiamo scorgerne, a malapena, soltanto i riflessi.

Forse, in definitiva, l'intero percorso di psicoterapia non é altro che un viaggio alla scoperta dei divieti che noi stessi poniamo sui sentieri capaci di condurci alla felicità. Il terapeuta può solo aiutare a identificarli, sta al paziente poi scegliere (ora liberamente) se rimuoverli oppure lasciarli.

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